Sulla boxe by Joyce Carol Oates

Sulla boxe by Joyce Carol Oates

autore:Joyce Carol Oates [Oates, Joyce Carol]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Joyce Carol Oates, boxe, Muhammad Ali, Mike Tyson, Jack Dempsey, Joe Loius, Jack Johnson, Attese
editore: 66THAND2ND
pubblicato: 2015-02-08T23:00:00+00:00


Il più crudele degli sport

E se il corpo non agisce pienamente come fa l’anima?

E se il corpo non fosse l’anima, l’anima cosa sarebbe?

WALT WHITMAN, Canto il corpo elettrico

La vittoria di un pugile si conquista con il sangue.

ISCRIZIONE GRECA

La boxe professionistica è l’unico grande sport americano le cui energie primordiali, e a volte omicide, non sono deviate con falso pudore da oggetti come palle e dischetti di gomma. Per quanto estremamente ritualizzato, e vincolato da regole, tradizioni e tabù con la stessa rigorosità di qualsiasi cerimonia religiosa, sopravvive come la più primitiva e terrificante delle competizioni: due uomini, pressoché nudi, si battono su uno spazio rialzato e illuminato a giorno, delimitato da corde come un recinto per animali (anche se all’inizio le corde servivano a tenere a distanza gli spettatori più scalmanati); due uomini salgono sul ring da cui, simbolicamente, ne scenderà uno solo. (Nella boxe possono anche esserci dei pareggi, ma sono rari e non troppo graditi). La boxe è l’imitazione stilizzata di una lotta per la vita o per la morte, eppure questa sua mimesi è una convenzione dall’esito incerto, perché a volte i pugili muoiono sul ring o per le conseguenze di un combattimento; le loro vite a volte, se non sempre, vengono accorciate dallo stress e dai colpi ricevuti nel corso delle loro carriere (sia durante gli allenamenti che negli incontri ufficiali). Di sicuro, come nel triste caso di Muhammad Ali, il peso massimo più acclamato e amato nella storia della boxe, la qualità della vita del pugile dopo il suo ritiro spesso peggiora. Per buona parte dei pugili, passati e presenti, la vita sul ring è ingrata, brutale e corta − e nemmeno troppo redditizia.

Eppure, per chi nel mondo della boxe vive, la conclusione ideale di un incontro è un ko e non una vittoria ai punti; e, in teoria, dovrebbe essere non quello in cui un pugile viene dichiarato «fuori combattimento» dopo il conteggio quando si regge ancora in piedi, e meno che mai un kot («ko tecnico», in seguito a un infortunio), ma un ko nel senso meno ambiguo del termine − un pugile a terra e privo di sensi, mentre l’altro saltella per il ring con i guantoni alzati in segno di vittoria, autentica personificazione delle fantasticherie di un adolescente maschio. Come una tragedia in cui nessuno muore, il combattimento senza il classico ko appare sempre irrisolto, incompleto: non si è avuta sufficiente misura della forza, del coraggio, dell’estro, della disperazione di nessuno dei due pugili. La catarsi è solo parziale, il principio aristotelico di un’azione in sé compiuta è stato disatteso. (Si ricordi la furia del giovane Muhammad Ali contro il Sonny Liston sconfitto con troppa facilità nel loro secondo e famigerato incontro per il titolo, nel 1965: invece di aspettare in un angolo neutro, Ali se stava in piedi sopra l’avversario al tappeto con il pugno alzato, e gridava: «Alzati e combatti, idiota!»). Questo perché la mimesi della boxe non è quella di un semplice gioco, ma un potente corrispettivo dell’umana lotta nei termini crudissimi di vita o di morte.



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